La donna ha uno sguardo duro, che fa male a guardarla. Non ci abbiamo fatto caso subito, eravamo troppo impegnati ad arraffare tutto quel che si poteva, fuori dal finestrino. Con occhi e obiettivo, come un ultimo bottino da riportare a casa. Perché quel viaggio in Perù ce l’eravamo sudato e meritato, e avevamo intenzione di approfittarne fino all’ultimo.
È stato l’odore intenso di lei a gridare la sua presenza. “Si sente bene signora?” le chiede Federico e già si alza per cederle il posto. “Gracias” mormora lei sedendosi. Sta sudando ma si stringe in un consunto e sporco scialle andino che ormai ha sbiadito la sua vivacità. Lancio un’occhiataccia al mio ragazzo che mi ha rifilato accanto quella donna poco gradevole, ma lui, con uno sguardo di rimprovero, mi indica la pancia. Dev’essere semplicemente in sovrappeso, penso, perché pare un donna troppo vecchia per essere incinta. E invece è al quinto mese. Si è sentita male, mi spiega in spagnolo, e ha lasciato a casa altri quattro figli per raggiungere il marito che lavora a Lima. Fatica persino a parlare. Ma non vuole né un medico, né dell’acqua, solo stare tranquilla, dice.
Rimaniamo in silenzio mentre scorre sotto di noi quell’infinita lingua d’asfalto che dal Cile si arrampica fino all’Alaska. La pallida fascia costiera e le brulle alture sgarbatamente solcate dalla Panamericana sono insensibili al nostro turbamento. La donna sembra stare meglio, si rilassa un poco, ma rimane chiusa in se stessa. Mi chiedo se anche lei, come molti peruviani che abbiamo incontrato, è attraversata dall’ombra di un diffidente risentimento storico verso gli stranieri “occidentali”.
Il silenzio si fa ingombrante. Decido di complimentarmi per le meraviglie naturali e gli straordinari siti archeologici che hanno in Perù, ma non succede niente. Lei quasi non mi guarda. Allora mi viene in mente che le immagini sono più potenti e condivisibili delle parole. Provo a farle vedere qualcuna delle foto fatte durante il viaggio che sta volgendo al termine. Sullo schermo della mia macchina fotografica dei grossi rapaci volteggiano sospesi sull’abisso del Colca Canyon.
Questa volta lei osserva con più attenzione, sembra interessata. “In tanti anni vissuti qui non ho mai avuto la fortuna di viaggiare - dice - Ho dovuto aspettare qualcuno che venisse da tanto lontano come te per poter vedere un condor con le ali bianche. Non credevo neppure che esistessero, tanto meno nel paese in cui vivo”. Il sollievo di sentirla finalmente parlare di nuovo svanisce quasi immediatamente, dissolto dalla nota dolorosa che colgo in quella voce grave. Il suo sguardo è fermo e lucido, forse per la febbre. “Spero che mio figlio possa avere un giorno lo stesso privilegio che avete avuto voi”.
Nessuno dice più niente. Mi riappoggio allo schienale mentre arriviamo nella capital. Qui un paese intero, scimmiottando modernità e riforme sociali, insegue la speranza, ancora costantemente frustrata da malgoverni e corruzione, di uscire dalla miseria. Attorno a noi, in un groviglio di strade regolari ma caotiche, si rincorrono decadenti palazzi coloniali e case barricate dietro recinzioni in filo spinato, baraccopoli e nuovi asettici quartieri residenziali, con centri commerciali dai prezzi globalizzati.
Guardo fuori dal finestrino ormai senza avidità né frenesia. Ci ho messo un po' per capire cosa sento ma ora so che è riconoscenza, verso questa strana presenza accanto a me, verso la vita, verso Federico che sa dubitare anche quando è scomodo. Perché niente è dovuto, niente è scontato. Perché questa donna, che pur pareva non possedere niente, mi ha appena regalato altri occhi.