Antropologo e documentarista, Lorenzo Hendel, regista del lungometraggio “Quando i bambini giocano in cielo”, si cimenta per la prima volta col cinema. Presentato a Stoccolma nella sezione cinema italiano e vincitore dell’Ischia Film Festival, quest’opera prima, una forma di archeologia visiva in chiave poetica, si rivela interessante da più punti di vista.
In particolare, incuriosisce l’incontro culturale con una diversità a noi lontana che riscopriamo, attraverso un esperto sguardo antropologico, diversa da come la dipinge l’immaginario collettivo.
Il racconto intreccia due storie parallele di solitudini infantili che si consumano in due differenti periodi storici e ambienti culturali. Su questo perno narrativo, gira un continuo confronto valoriale che si stempera nel dipanarsi degli avvenimenti. La distanza tra i due mondi rappresentati, il locale e lo straniero, l’atavico ed il contemporaneo, sembra progressivamente ridursi sino al contatto finale, drammaturgicamente possibile grazie all’interazione tra le due storie. L’incontro produce consapevolezza e consente, ove ancora possibile, il riavvicinamento tra un padre e il figlio.
Le spettacolari immagini paesaggistiche accompagnano il pubblico nel confronto con temi impegnativi quali la lotta per la sopravvivenza, la solitudine, le diversità religiose, la condizione subalterna della donna. “Non c’è ideologia nel mio film, non vuole essere dimostrativo” dichiara Hendel. Il suo è un messaggio d’altro tipo, universale ed esplicito: solo attraverso un’interazione rispettosa, aperta e senza pregiudizi, può avvenire davvero l’incontro-scambio con una diversa cultura, un incontro che ci arricchisce, ci cambia e ci permette di conoscere meglio noi stessi.
La pellicola, girata tra Italia e Groenlandia, racchiude sette anni di lavoro e l’esperienza di vita del regista a stretto contatto con le popolazioni locali.
“L’idea per questo film nasce nel ’98, nel corso delle riprese per un documentario sugli eschimesi per il programma GEO della Rai. “Ho subito amato quel popolo dal passato insospettabilmente tragico, ricco di storia e drammi ma anche di una grande forza di spirito. Sono rimasto affascinato da un minimalismo quasi infantile fatto di spiriti e magia” racconta Hendel “Realizzando il nostro progetto, abbiamo anche portato la comunità di lassù a guardarsi indietro” dichiara con modesto orgoglio parlando dello sconcerto di quelle popolazioni per la sua curiosità nei confronti del loro passato, vissuto sino a quel momento come qualcosa di cui vergognarsi.
Il regista racconta di quanto la sua avventura cinematografica si sia rivelata emozionante anche per il rapporto con gli attori, per lo più reclutati sul posto e totalmente a digiuno di esperienze recitative. Si sono dimostrati assolutamente naturali e spontanei davanti alle telecamere. Seguendo le indicazioni di regia e sceneggiatura, hanno fatto propri i personaggi e si sono comportati come avrebbero fatto davvero nella realtà. Di loro ci racconta Hendel: “si immedesimavano a tal punto da sembrare totalmente veri; paradossalmente, proprio perché incapaci di mentire e dissimulare, hanno una tale ingenuità ed innocenza che permette loro di raggiungere un’autosufficienza espressiva unica”.
Qualche critica ed autocritica nascono, invece, da un’analisi della sceneggiatura, troppo sbilanciata tra passato e presente, forzata e leggermente lacunosa in alcuni passaggi. “Mi sarebbe piaciuto poter modificare alcune parti e correggere errori che noto solo a posteriori” confessa il regista “purtroppo però, i punti di non ritorno imposti dal sistema produttivo cinematografico non lo consentono”.
Cristina Favento
In particolare, incuriosisce l’incontro culturale con una diversità a noi lontana che riscopriamo, attraverso un esperto sguardo antropologico, diversa da come la dipinge l’immaginario collettivo.
Il racconto intreccia due storie parallele di solitudini infantili che si consumano in due differenti periodi storici e ambienti culturali. Su questo perno narrativo, gira un continuo confronto valoriale che si stempera nel dipanarsi degli avvenimenti. La distanza tra i due mondi rappresentati, il locale e lo straniero, l’atavico ed il contemporaneo, sembra progressivamente ridursi sino al contatto finale, drammaturgicamente possibile grazie all’interazione tra le due storie. L’incontro produce consapevolezza e consente, ove ancora possibile, il riavvicinamento tra un padre e il figlio.
Le spettacolari immagini paesaggistiche accompagnano il pubblico nel confronto con temi impegnativi quali la lotta per la sopravvivenza, la solitudine, le diversità religiose, la condizione subalterna della donna. “Non c’è ideologia nel mio film, non vuole essere dimostrativo” dichiara Hendel. Il suo è un messaggio d’altro tipo, universale ed esplicito: solo attraverso un’interazione rispettosa, aperta e senza pregiudizi, può avvenire davvero l’incontro-scambio con una diversa cultura, un incontro che ci arricchisce, ci cambia e ci permette di conoscere meglio noi stessi.
La pellicola, girata tra Italia e Groenlandia, racchiude sette anni di lavoro e l’esperienza di vita del regista a stretto contatto con le popolazioni locali.
“L’idea per questo film nasce nel ’98, nel corso delle riprese per un documentario sugli eschimesi per il programma GEO della Rai. “Ho subito amato quel popolo dal passato insospettabilmente tragico, ricco di storia e drammi ma anche di una grande forza di spirito. Sono rimasto affascinato da un minimalismo quasi infantile fatto di spiriti e magia” racconta Hendel “Realizzando il nostro progetto, abbiamo anche portato la comunità di lassù a guardarsi indietro” dichiara con modesto orgoglio parlando dello sconcerto di quelle popolazioni per la sua curiosità nei confronti del loro passato, vissuto sino a quel momento come qualcosa di cui vergognarsi.
Il regista racconta di quanto la sua avventura cinematografica si sia rivelata emozionante anche per il rapporto con gli attori, per lo più reclutati sul posto e totalmente a digiuno di esperienze recitative. Si sono dimostrati assolutamente naturali e spontanei davanti alle telecamere. Seguendo le indicazioni di regia e sceneggiatura, hanno fatto propri i personaggi e si sono comportati come avrebbero fatto davvero nella realtà. Di loro ci racconta Hendel: “si immedesimavano a tal punto da sembrare totalmente veri; paradossalmente, proprio perché incapaci di mentire e dissimulare, hanno una tale ingenuità ed innocenza che permette loro di raggiungere un’autosufficienza espressiva unica”.
Qualche critica ed autocritica nascono, invece, da un’analisi della sceneggiatura, troppo sbilanciata tra passato e presente, forzata e leggermente lacunosa in alcuni passaggi. “Mi sarebbe piaciuto poter modificare alcune parti e correggere errori che noto solo a posteriori” confessa il regista “purtroppo però, i punti di non ritorno imposti dal sistema produttivo cinematografico non lo consentono”.
Cristina Favento
Greets to the webmaster of this wonderful site. Keep working. Thank you.
RispondiElimina»