Un omaggio molto particolare ad Umberto Saba: al poeta, all’uomo ma soprattutto al drammaturgo mancato. Rappresentato al Teatro Miela dalla compagnia indipendente L’Argante, dopo quasi un secolo dalla prima ostile accoglienza del pubblico nel 1913, ha ripreso vita scenica "Il letterato Vincenzo", unico testo teatrale dell’autore giunto integralmente ai posteri.
In quest’opera giovanile, acerba e fortemente autobiografica, mancavano ancora a Saba spontaneità e sicurezza nella costruzione dei dialoghi, caratteristiche della sua produzione più matura, e una certa dimestichezza con il linguaggio teatrale. Dopo lo sfortunato debutto, nonostante le numerose correzioni autografe, il dattiloscritto non fu pubblicato né più rappresentato, almeno sino a sabato scorso.
Nel "Letterato", Saba proietta tutto se stesso: vittimismo; ipocondria; il sofferto ma ricercato distacco dal mondo; l’irrisolta crisi coniugale con la moglie Lina, che in quel periodo l’aveva lasciato; il difficile momento artistico che stava attraversando nel tentativo di superare l’artificioso modello dannunziano. Prendono forma le tematiche centrali nella sua poetica del cantuccio e le riflessioni teoriche che ritroveremo compiutamente espresse nel saggio "Quel che resta da fare ai poeti".
L’autore analizza la sua duplice natura, di uomo e di letterato, e il giudizio artistico diventa imprescindibile dal suo amaro atto di autocritica, espresso nella battuta finale di Vincenzo: "I miei versi sono superficiali come la mia vita".
L’Argante, diretta da Corrado Travan, ha voluto celebrare il cinquantenario dalla morte dell’artista dedicando allo spettacolo anche una parentesi biografica introduttiva. Un’operazione intelligente, dal sapore vagamente pedagogico, che fornisce agli spettatori alcuni strumenti d’interpretazione e chiarisce gli intenti della regia.
È una produzione che assomiglia ad un nostalgico viaggio sentimentale. Far rivivere sul palcoscenico "Il Letterato Vincenzo", racconta Travan, "significa entrare nell’officina dell’artista e scoprire il modo semplice, a volte ingenuo, con cui appaiono per la prima volta alcuni spunti che troveranno nella sua opera seguente ben altri sviluppi estetici. Abbiamo dovuto limare e ritessere".
Attori e regista però non riescono ad infondere ai propri personaggi quella naturale e dinamica intensità che, forse, avrebbe potuto colmare le debolezze intrinseche del testo: una sostanziale carenza d’azione; una struttura eccessivamente lineare, non approfondita nei potenziali sviluppi; una costruzione incerta e poco vivace delle battute. Resta apprezzabile il tentativo di offrire una seconda possibilità ad un grande autore del Novecento.
di Cristina Favento
Articolo pubblicato sul Piccolo del 28 febbraio 2007
In quest’opera giovanile, acerba e fortemente autobiografica, mancavano ancora a Saba spontaneità e sicurezza nella costruzione dei dialoghi, caratteristiche della sua produzione più matura, e una certa dimestichezza con il linguaggio teatrale. Dopo lo sfortunato debutto, nonostante le numerose correzioni autografe, il dattiloscritto non fu pubblicato né più rappresentato, almeno sino a sabato scorso.
Nel "Letterato", Saba proietta tutto se stesso: vittimismo; ipocondria; il sofferto ma ricercato distacco dal mondo; l’irrisolta crisi coniugale con la moglie Lina, che in quel periodo l’aveva lasciato; il difficile momento artistico che stava attraversando nel tentativo di superare l’artificioso modello dannunziano. Prendono forma le tematiche centrali nella sua poetica del cantuccio e le riflessioni teoriche che ritroveremo compiutamente espresse nel saggio "Quel che resta da fare ai poeti".
L’autore analizza la sua duplice natura, di uomo e di letterato, e il giudizio artistico diventa imprescindibile dal suo amaro atto di autocritica, espresso nella battuta finale di Vincenzo: "I miei versi sono superficiali come la mia vita".
L’Argante, diretta da Corrado Travan, ha voluto celebrare il cinquantenario dalla morte dell’artista dedicando allo spettacolo anche una parentesi biografica introduttiva. Un’operazione intelligente, dal sapore vagamente pedagogico, che fornisce agli spettatori alcuni strumenti d’interpretazione e chiarisce gli intenti della regia.
È una produzione che assomiglia ad un nostalgico viaggio sentimentale. Far rivivere sul palcoscenico "Il Letterato Vincenzo", racconta Travan, "significa entrare nell’officina dell’artista e scoprire il modo semplice, a volte ingenuo, con cui appaiono per la prima volta alcuni spunti che troveranno nella sua opera seguente ben altri sviluppi estetici. Abbiamo dovuto limare e ritessere".
Attori e regista però non riescono ad infondere ai propri personaggi quella naturale e dinamica intensità che, forse, avrebbe potuto colmare le debolezze intrinseche del testo: una sostanziale carenza d’azione; una struttura eccessivamente lineare, non approfondita nei potenziali sviluppi; una costruzione incerta e poco vivace delle battute. Resta apprezzabile il tentativo di offrire una seconda possibilità ad un grande autore del Novecento.
di Cristina Favento
Articolo pubblicato sul Piccolo del 28 febbraio 2007
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