Duo comico dai trascorsi televisivi loro, scrittrice penetrante e inquieta lei. Un connubio insolito ma indubbiamente azzeccato. Domenica scorsa al Nuovo Teatro Comunale di Monfalcone, Massimo Olcese e Adolfo Margiotta hanno interpretato “John e Joe”, pièce teatrale in tre quadri di Agota Kristof.
L’autrice ungherese, emigrata in Svizzera nel’56 e consacrata a un successo internazionale grazie all’indimenticabile e angosciante “Trilogia della città di K”, ha composto anche nove opere teatrali (“La Chiave dell’ascensore” e “L’ora grigia” sono state pubblicate in Italiano da Einaudi). Tra queste, appunto, “John e Joe”, un amore a prima lettura per Olcese & Margiotta, decisi a portarla sui palcoscenici italiani.
Scritto in francese nel 1972, il testo sembra cucito addosso ai personaggi tipicamente interpretati dai due comici, scoperti da Paolo Rossi allo Zelig di Milano e divenuti popolari grazie ad “Avanzi”, condotto su Raitre da Serena Dandini. Stesse modalità espressive, stessa atmosfera surreale. Anche il rapporto simbiotico che lega i protagonisti della pièce assomiglia a quello dei due attori, l’uno genovese, l’altro napoletano, che nella vita fanno coppia ormai da vent’anni a teatro, al cinema e in tv.
Lo spettacolo punta sui toni di un assurdo burlesco che a momenti sfiora l’idiozia. Il fascino del denaro s’insinua a minare la routine di due amici squattrinati, due precari della vita, intenti a condividere il proprio vuoto passeggiando e bevendo grappe. Il rapporto s’incrina al momento di spartirsi una vincita al lotto e John arriva addirittura a denunciare Joe, condannandolo a una notte di prigione, per poi pagargli la cauzione il mattino dopo.
Affiancati da un antipatico cameriere, impersonato da Vito Favata, i protagonisti si rincorrono e si alternano, scambiandosi addirittura movenze e abiti, in un gioco volutamente ripetitivo e incalzante. Sembrano aspettare in scena l’ennesimo Godot, prigionieri di un bar che diventa uno spazio astratto, trasfigurato. Il luogo di un’identità sospesa, dell’altro, del proprio doppio.
Nell’arco di tre giornate si compie la loro parabola esperienziale. Li ritroviamo, infine, vestiti a nuovo, pronti a perdonare e dimenticare pur di superare le proprie solitudini, pur di tornare alle proprie misere ma rassicuranti abitudini. Due franchi per caffè e giornale, un amico e una grappa sono tutto ciò che basta.
Lo stile scarno della scrittrice raggiunge, anche questa volta, un’essenzialità universale ed emblematica. Asciutto e minimale, il testo non fornisce attendibili coordinate per chi volesse ricercare le specifiche ragioni del disagio.
“Facendo leva sulla reale condizione di precariato assoluto dei due personaggi” dichiara Pietro Faiella, che ha curato regia e traduzione dell’opera, “ho voluto raccontare quello che, sotto il cielo di dominio del capitale, può accadere ad ognuno di noi”.
L’autrice ungherese, emigrata in Svizzera nel’56 e consacrata a un successo internazionale grazie all’indimenticabile e angosciante “Trilogia della città di K”, ha composto anche nove opere teatrali (“La Chiave dell’ascensore” e “L’ora grigia” sono state pubblicate in Italiano da Einaudi). Tra queste, appunto, “John e Joe”, un amore a prima lettura per Olcese & Margiotta, decisi a portarla sui palcoscenici italiani.
Scritto in francese nel 1972, il testo sembra cucito addosso ai personaggi tipicamente interpretati dai due comici, scoperti da Paolo Rossi allo Zelig di Milano e divenuti popolari grazie ad “Avanzi”, condotto su Raitre da Serena Dandini. Stesse modalità espressive, stessa atmosfera surreale. Anche il rapporto simbiotico che lega i protagonisti della pièce assomiglia a quello dei due attori, l’uno genovese, l’altro napoletano, che nella vita fanno coppia ormai da vent’anni a teatro, al cinema e in tv.
Lo spettacolo punta sui toni di un assurdo burlesco che a momenti sfiora l’idiozia. Il fascino del denaro s’insinua a minare la routine di due amici squattrinati, due precari della vita, intenti a condividere il proprio vuoto passeggiando e bevendo grappe. Il rapporto s’incrina al momento di spartirsi una vincita al lotto e John arriva addirittura a denunciare Joe, condannandolo a una notte di prigione, per poi pagargli la cauzione il mattino dopo.
Affiancati da un antipatico cameriere, impersonato da Vito Favata, i protagonisti si rincorrono e si alternano, scambiandosi addirittura movenze e abiti, in un gioco volutamente ripetitivo e incalzante. Sembrano aspettare in scena l’ennesimo Godot, prigionieri di un bar che diventa uno spazio astratto, trasfigurato. Il luogo di un’identità sospesa, dell’altro, del proprio doppio.
Nell’arco di tre giornate si compie la loro parabola esperienziale. Li ritroviamo, infine, vestiti a nuovo, pronti a perdonare e dimenticare pur di superare le proprie solitudini, pur di tornare alle proprie misere ma rassicuranti abitudini. Due franchi per caffè e giornale, un amico e una grappa sono tutto ciò che basta.
Lo stile scarno della scrittrice raggiunge, anche questa volta, un’essenzialità universale ed emblematica. Asciutto e minimale, il testo non fornisce attendibili coordinate per chi volesse ricercare le specifiche ragioni del disagio.
“Facendo leva sulla reale condizione di precariato assoluto dei due personaggi” dichiara Pietro Faiella, che ha curato regia e traduzione dell’opera, “ho voluto raccontare quello che, sotto il cielo di dominio del capitale, può accadere ad ognuno di noi”.
di Cristina Favento, articolo pubblicato su "Il Piccolo" del 10 marzo 2007
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