L’evento, conferma visibile di tutto il lavoro svolto, ha concluso la terza fase di un “Cantiere”, iniziato lo scorso settembre sotto la guida dell’illustre capocomico e organizzato da Bonawentura/Teatro Miela in collaborazione con il Comune di Muggia e con il sostegno della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia.L’idea del progetto è nata in seguito all’esperienza positiva della Confraternita dei Precari, che ha visto la fusione di due compagnie teatrali: quella della triestina Pupkin Kabarett e la milanese Baby Gang, dirette da Rossi, desideroso di allargare e condividere l’esperienza anche con altri attori che operano sul territorio regionale e nella vicina Slovenia.
“Insegnare e tramandare il metodo e i trucchi del mestiere favorisce il ricambio generazionale, crea dei figli”, dichiara Rossi con vivacità, “se ciò non accade, tra dieci anni negli stabili ci ritroviamo con qualche attore anziano e poi il vuoto. Le ultime generazioni troppo spesso hanno pensato solo a se stesse”.
Sembrano aver imparato bene gli allievi in scena, che riescono nell'intento di comunicare in modo diretto con il pubblico. Si fanno notare soprattutto un’irresistibile Valentina Picello e il versatile Federico Bonaconza. Apprezzatissimo anche Alessandro Mizzi, del Pupkin Kabarett, in versione poeta dialettale di confine in procinto di perdere la sua identità.
Protagonista della serata conclusiva è stata naturalmente l’improvvisazione, pilastro del teatro popolare. Perché nel teatro di sussistenza, in scena, s’impara a stare con poco, quasi niente, e a lavorare con quello che c’è: qualche parola suggerita dal pubblico, il proprio corpo, un costante gioco di rimandi e la valorizzazione degli imprevisti, come uno starnuto o una porta che cigola.
Dopo un inizio impegnativo con gli interventi didattici di Giampaolo Spinato sul linguaggio, di Maria Consagra sul corpo dell’attore e di Renata Molinari, che ci ha regalato un delizioso contributo sugli almanacchi colorito da incantevoli “cartoline” e rimandi, si entra nel vivo dell’happening. Arrivano gli esercizi pratici, una strampalata favola di Paolo Rossi e i cosiddetti “trailers” teatrali di “Luci di Bohemia”, lo spettacolo della Baby Gang che ha vinto la prima edizione del concorso “Nuove sensibilità” organizzato a Napoli.
Un video ci svela anche il mistero delle numerose scritte che hanno tappezzato muri e pavimenti della città di Milano con un coro di “Perché stasera non vai a teatro?”. Tra una farsa e una scenetta, si arriva infine al vero cuore dell’incontro: la presentazione del Manifesto, ispirato, nella forma più che nei contenuti, a quello futurista di inizio Novecento, rievocato in sala dal Pupkin con traduzione “sloveno-futurista”.
“Il Manifesto è un elemento chiave”, sottolinea Rossi, “non tanto per definire stili o modi di fare teatro, quanto piuttosto per farci capire, per costruire un codice e magari poi infrangerlo, per poter fare teatro con passionalità”.
Il nuovo teatro popolare, dunque, incuriosisce, non predica; particolarizza, non semplifica; contamina generi diversi, mettendo stile e bellezza al servizio della storia; non sminuisce; è vivo, non autoreferenziale. Ha radici molto forti nella vita, non nel foyer. Si sottopone all’autorità degli scrittori e non del pubblico. Non spende i propri denari in scenografie faziose o inutili a coprire vuoti di scena. È pop: mischia le lingue, usa i dialetti, inventa un linguaggio nuovo e diretto. Si rivolge anche a chi a teatro non è abituato ad andare, perché tutti devono capire. Recita non al pubblico ma con il pubblico. Il teatro popolare deve dar da mangiare a chi lo fa, deve permettere di pagare l’affitto e magari, perché no, di andare in vacanza.
di Cristina Favento,
pubblicato su Il Piccolo di mercoledì 12 dicembre 2007
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