Correva l’anno 1972 e non tutti ricorderanno che alla XX edizione dei Giochi Olimpici di Monaco – funestati dal tragico sequestro degli atleti israeliani che terminò in un massacro e passati alla storia per le incredibili prestazioni di Mark Spitz e la rocambolesca finale di basket tra Stati Uniti e Russia - partecipò anche un giovane talento emergente del ciclismo italiano di nome Francesco Moser. L’ex corridore ricorda ancora con rimpianto quell’unica sfortunata Olimpiade: “Sono arrivato al traguardo con una gomma bucata! Quando ho forato era troppo tardi per poterla cambiare e ho dovuto concludere la gara così, arrivando settimo anche se all’epoca ero il favorito”. Moser, ospite stasera di Lagunamovies assieme a Gloria De Antoni per parlare di Olimpiadi e del’”ultima pedalata” di Bottecchia (ore 21 alla Diga di Grado), è a tutt’oggi il corridore più vittorioso nella storia del ciclismo italiano.
“Nel ‘72 le Olimpiadi erano ancora riservate ai dilettanti: si partecipava una sola volta e poi si diventava professionisti”, racconta, “e personalmente le preferivo così. Oggi, invece, un ciclista professionista può parteciparvi nel corso della sua carriera anche due o tre volte, mentre le società dilettantistiche non hanno più un vero obiettivo prestigioso da raggiungere”.
Qual è il suo pronostico per Pechino? Concorda con chi punta su Paolo Bettini?
Direi di si. Possono far bene anche Rebellin e Nibali, ma Bellini resta l’uomo di punta. È tagliato per quel tipo di circuito e ha buone possibilità.
Che cosa ne pensa delle giovani generazioni di ciclisti?
Ciclisti affermati come Cunego, Di Luca o Simoni si possono già considerare la vecchia guardia. Di veri campioni giovani, e per giovani intendo poco più che ventenni, ancora non ne abbiamo. Nibali è andato bene al Tour e Napolitano va bene in volata, ma bisogna ancora vedere veramente come vanno. Al momento i tempi non sono ancora maturi.
Stasera si parlerà, invece, di un grande sportivo degli anni Venti, che cosa pensa di Bottecchia?
È stato uno che segnato la storia, un corridore che vinceva qualsiasi competizione ed è scomparso in condizioni poco chiare. Se avesse continuato, probabilmente avrebbe potuto fare di più. Sono figure che restano e nell’ambiente si nominano ancora. La gioventù magari ne sa poco, sono passate tre generazioni e non si riesce mai a tramandare tutto, restano le cose più importanti ma un po’ si dimentica.
Che è successo in queste tre generazioni?
Fino a prima della guerra c’era un ciclismo che potremmo definire “eroico”, poi, dopo la seconda guerra mondiale, inizia il cosiddetto ciclismo moderno, anche se in quegli anni la tecnologia era ancora in evoluzione. La vera era moderna inizia dal ’65 in poi, dopo la morte di Coppi.
Com’è cambiato il ciclismo?
È cambiato molto. Costa comunque fatica, ma sono cambiate soprattutto le condizioni di vita della gente. Allora correvano per mangiare, oggi corrono per dimagrire! È una differenza epocale: il 90 % dei ciclisti oggi corre per restare in forma. Una volta non serviva perché si andava a piedi, si facevano lavori manuali.
Lo sport agonistico, inoltre, è diventato molto tecnico e tecnologico, molto mentale anche. Uno forte una volta poteva sbagliare e vinceva lo stesso, oggi non si può sbagliare niente, tutto si decide nel finale, è tutto molto calcolato, non ci sono più le grandi fughe alle quali si assisteva prima.
Lei come ha vissuto questi cambiamenti?
Ho vissuto proprio il ciclismo a cavallo tra quello di oggi e quello di Coppi e Baldini; iniziava a farsi sentire l’influenza della modernità: molta tecnologia, cardiofrequenzimetro, modi molto controllati, ricerche sulla muscolatura, ricerche psicologiche, con innumerevoli applicazioni. Adesso, dopo vent’anni che ho smesso, è ancor peggio.
Chi ha conosciuto Moser dei grandi del passato?
Coppi no, è morto quando avevo nove anni. Ho conosciuto bene il fratello Aldo, ci ho corso anche contro. Adorni e Baldini li ho visti correre mentre ho conosciuto bene Bartali ma non l’ho mai visto gareggiare. Quando ha smesso avevo due anni, ma ricordo che anche dopo tutti lo volevano, tutti lo salutavano e lo trattavano con grande rispetto. Succede finché hai delle persone che ti hanno visto correre.
All’epoca la strenua competizione tra lei e Saronni appassionò e divise in due l’Italia, come la visse?
Era un bello scontro. C’erano sempre due gare: la corsa tra me e lui e la corsa di tutti gli altri.
Rispetto agli anni Ottanta, il rapporto tra medicina e sport è completamente cambiato, che cosa ne pensa dei recenti casi di doping?
Purtroppo sono comparse moltissime medicine che alterano il rendimento degli atleti, soprattutto negli sport di durata. Sul lungo percorso la differenza tra chi ne fa uso o meno si nota in maniera sensibile. Il problema è riuscire a mettere tutti nelle stesse condizioni, se si fa un controllo, tutti dovrebbero rispettare le stesse regole.
Di che tipo di intervento c’è bisogno?
Le punizioni severe già ci sono: due anni senza correre sono davvero tanti, per non parlare del danno all’immagine. Se un atleta commette questo tipo di errore non si torna indietro, lo sanno subito tutti, ed è un marchio indelebile che si porta dietro a vita. Il problema, però, è molto complesso. Ci sono anche medici che lavorano assieme ai corridori e che li consigliano, magari male, ma è sempre l’atleta che deve rispondere in prima persona.
Certo è difficile, ad esempio, pensare che una campionessa mondiale possa aver assunto delle sostanze illegali senza esserne consapevole. Chi raggiunge certi livelli dovrebbe sapere esattamente cosa sta facendo. In questo momento c’è una comprensibile delusione nel mondo sportivo e non solo, è un momento difficile anche a livello di sponsor. Questa crisi dovrebbe far pensare e responsabilizzare. Se ci sono delle regole, bisogna rispettarle, tanto più in un momento delicato come questo.
Un consiglio a chi intraprende oggi la sua professione?
Il ciclismo, e lo sport in generale, è una scelta di vita difficile, per farlo bisogna servirlo al cento per cento, dedicarsi totalmente e non pensare di poter fare le cose solo a metà.
Qual è il suo pronostico per Pechino? Concorda con chi punta su Paolo Bettini?
Direi di si. Possono far bene anche Rebellin e Nibali, ma Bellini resta l’uomo di punta. È tagliato per quel tipo di circuito e ha buone possibilità.
Che cosa ne pensa delle giovani generazioni di ciclisti?
Ciclisti affermati come Cunego, Di Luca o Simoni si possono già considerare la vecchia guardia. Di veri campioni giovani, e per giovani intendo poco più che ventenni, ancora non ne abbiamo. Nibali è andato bene al Tour e Napolitano va bene in volata, ma bisogna ancora vedere veramente come vanno. Al momento i tempi non sono ancora maturi.
Stasera si parlerà, invece, di un grande sportivo degli anni Venti, che cosa pensa di Bottecchia?
È stato uno che segnato la storia, un corridore che vinceva qualsiasi competizione ed è scomparso in condizioni poco chiare. Se avesse continuato, probabilmente avrebbe potuto fare di più. Sono figure che restano e nell’ambiente si nominano ancora. La gioventù magari ne sa poco, sono passate tre generazioni e non si riesce mai a tramandare tutto, restano le cose più importanti ma un po’ si dimentica.
Che è successo in queste tre generazioni?
Fino a prima della guerra c’era un ciclismo che potremmo definire “eroico”, poi, dopo la seconda guerra mondiale, inizia il cosiddetto ciclismo moderno, anche se in quegli anni la tecnologia era ancora in evoluzione. La vera era moderna inizia dal ’65 in poi, dopo la morte di Coppi.
Com’è cambiato il ciclismo?
È cambiato molto. Costa comunque fatica, ma sono cambiate soprattutto le condizioni di vita della gente. Allora correvano per mangiare, oggi corrono per dimagrire! È una differenza epocale: il 90 % dei ciclisti oggi corre per restare in forma. Una volta non serviva perché si andava a piedi, si facevano lavori manuali.
Lo sport agonistico, inoltre, è diventato molto tecnico e tecnologico, molto mentale anche. Uno forte una volta poteva sbagliare e vinceva lo stesso, oggi non si può sbagliare niente, tutto si decide nel finale, è tutto molto calcolato, non ci sono più le grandi fughe alle quali si assisteva prima.
Lei come ha vissuto questi cambiamenti?
Ho vissuto proprio il ciclismo a cavallo tra quello di oggi e quello di Coppi e Baldini; iniziava a farsi sentire l’influenza della modernità: molta tecnologia, cardiofrequenzimetro, modi molto controllati, ricerche sulla muscolatura, ricerche psicologiche, con innumerevoli applicazioni. Adesso, dopo vent’anni che ho smesso, è ancor peggio.
Chi ha conosciuto Moser dei grandi del passato?
Coppi no, è morto quando avevo nove anni. Ho conosciuto bene il fratello Aldo, ci ho corso anche contro. Adorni e Baldini li ho visti correre mentre ho conosciuto bene Bartali ma non l’ho mai visto gareggiare. Quando ha smesso avevo due anni, ma ricordo che anche dopo tutti lo volevano, tutti lo salutavano e lo trattavano con grande rispetto. Succede finché hai delle persone che ti hanno visto correre.
All’epoca la strenua competizione tra lei e Saronni appassionò e divise in due l’Italia, come la visse?
Era un bello scontro. C’erano sempre due gare: la corsa tra me e lui e la corsa di tutti gli altri.
Rispetto agli anni Ottanta, il rapporto tra medicina e sport è completamente cambiato, che cosa ne pensa dei recenti casi di doping?
Purtroppo sono comparse moltissime medicine che alterano il rendimento degli atleti, soprattutto negli sport di durata. Sul lungo percorso la differenza tra chi ne fa uso o meno si nota in maniera sensibile. Il problema è riuscire a mettere tutti nelle stesse condizioni, se si fa un controllo, tutti dovrebbero rispettare le stesse regole.
Di che tipo di intervento c’è bisogno?
Le punizioni severe già ci sono: due anni senza correre sono davvero tanti, per non parlare del danno all’immagine. Se un atleta commette questo tipo di errore non si torna indietro, lo sanno subito tutti, ed è un marchio indelebile che si porta dietro a vita. Il problema, però, è molto complesso. Ci sono anche medici che lavorano assieme ai corridori e che li consigliano, magari male, ma è sempre l’atleta che deve rispondere in prima persona.
Certo è difficile, ad esempio, pensare che una campionessa mondiale possa aver assunto delle sostanze illegali senza esserne consapevole. Chi raggiunge certi livelli dovrebbe sapere esattamente cosa sta facendo. In questo momento c’è una comprensibile delusione nel mondo sportivo e non solo, è un momento difficile anche a livello di sponsor. Questa crisi dovrebbe far pensare e responsabilizzare. Se ci sono delle regole, bisogna rispettarle, tanto più in un momento delicato come questo.
Un consiglio a chi intraprende oggi la sua professione?
Il ciclismo, e lo sport in generale, è una scelta di vita difficile, per farlo bisogna servirlo al cento per cento, dedicarsi totalmente e non pensare di poter fare le cose solo a metà.
Il suo ricordo ciclistico più caro?
Ci sarebbero troppe cose da ricordare che hanno lasciato il segno, però, quella che forse resta di più è il Giro d'Italia.
E la dinastia dei Moser? Ci riserverà qualche nuova sorpresa?
C’è mio nipote che alle gare arriva ma per il momento non vince mai. Corrono in due, a dire il vero, dei figli di Diego: Moreno e Leonardo. E poi c’è anche mio figlio Ignazio, ma sono ancora tutti molto giovani.
Ci sarebbero troppe cose da ricordare che hanno lasciato il segno, però, quella che forse resta di più è il Giro d'Italia.
E la dinastia dei Moser? Ci riserverà qualche nuova sorpresa?
C’è mio nipote che alle gare arriva ma per il momento non vince mai. Corrono in due, a dire il vero, dei figli di Diego: Moreno e Leonardo. E poi c’è anche mio figlio Ignazio, ma sono ancora tutti molto giovani.
di Cristina Favento, pubblicata sul quotidiano "Il Piccolo" di venerdì 8 agosto 2008
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