30 dicembre 2007

CAPODANNO A LUBIANA


LUBIANA. Nei giorni tra Natale e i primi di gennaio, la capitale slovena appare viva, splendente, ospitale e, soprattutto, dopo la caduta dei confini tra i Italia e Slovenia, più vicina che mai. La città si anima grazie a un ricco programma di manifestazioni all'aperto e accoglie festosa i visitatori vestita di abiti luminosi che ornano i palazzi centrali e creano suggestive architetture di luce. L’atmosfera è calda e gioviale, le strade piene di gente, i locali tutti aperti.
Lubiana è sempre stata una metà ideale per chi, pur non volendo andare troppo lontano, non aveva voglia di trascorrere il Capodanno nella propria città o nel proprio paese. Di anno in anno, soprattutto nei giorni a cavallo tra nuovo e vecchio anno, in particolare la notte del 31 dicembre, l’afflusso di visitatori è cresciuto, conferendo alla capitale un gaio volto multietnico. E, nel generale vociare festivo tra le strade, tra cedenze locali e accenti tedeschi, non ha mai stupito che spiccasse per lo più un inconfondibile cicaleccio italiano.
Lubiana è apprezzata sia per la vivacità dell’esperienza in città, sia per la qualità dell’offerta turistica e culturale, che prevede soprattutto esibizioni teatrali e concertistiche. A coinvolgere gli ospiti contribuiscono anche una sentita partecipazione religiosa alle festività, il fasto delle luci e le allegre manifestazioni all’aperto. La fiera di San Nicola è seguita da “Dicembre sul mercato” e gli ultimi giorni dell'anno acquisiscono un fascino fiabesco anche agli occhi dei più piccoli, deliziati dalle attrazioni del parco Zvezda e dal Corteo di Babbo Gelo che attraversa le strade.
L’arrivo del nuovo anno, allo scoccare della mezzanotte, viene salutato da un’immancabile spettacolo pirotecnico e i fuochi artificiali, lanciati dal Castello, sono visibili da ogni parte della città. La vista migliore si gode però dalla piazza Prešernov trg, dove ha luogo una serata d’intrattenimento adatto al largo pubblico e a tutte le età. Gli altri due luoghi canonici deputati ai festeggiamenti sono la piazza civica di Mestni trg, che ospita le esibizioni dei più famosi cantanti pop sloveni, e la piazza Kongresni trg, che raccoglie il pubblico più giovane. Particolarmente movimentata fino a tarda notte sarà, come sempre, la zona del lungofiume e della Cankarjevo nabr.

Per chi al cenone di Capodanno non sa proprio rinunciare, oltre a ristoranti e locali in città, suggeriamo di valutare i numerosi agriturismo che circondano Lubiana e propongono diversi menù festivi, in genere basati su’offerta enogastronomica tradizionale. Dopo la cena si può sempre ripiegare verso il centro per continuare i festeggiamenti. In dicembre sono diverse le manifestazioni che hanno luogo nei villaggi: benedizioni dei cavalli, cori che intonano canzoni natalizie cantate per la strada e affascinanti rappresentazioni dei presepi viventi, organizzati anche nelle grotte carsiche.
Per chi considera le festività un’opportunità per godersi il tempo libero in modo attivo, in Slovenia non mancano centri di sport invernali dove praticare sci alpino, escursionistico, snowboard e sci di fondo. I più famosi si trovano a Kranjska Gora e sul Pohorje di Maribor; quello più in quota è sul monte Kanin (Canin), dove c’è neve fino a primavera inoltrata. Tra le mete più popolari rientrano anche il Krvavec, vicino a Lubiana, il Rogla sul Pohorje di Zreče e il Golte sopra Mozirje. Cerkno è il centro sciistico per famiglie più moderno della Slovenia. Fine dicembre è interessante anche per gli escursionisti che in molte località slovene possono partecipare a marce tradizionali, anche notturne.
Tradizionalmente popolari e molto frequentati in questo periodo sono, infine, i centri termali e di cure naturali sloveni, che, attraverso una grande varietà di programmi benessere rilassanti e rigeneranti, garantiscono di riprendere con rinnovato vigore l’anno nuovo. I programmi di benessere in Slovenia non vengono offerti soltanto dalle terme ma anche da numerosi alberghi modernamente ideati, presenti nelle maggiori città e nei centri turistici.

di Cristina Favento,
pubblicato su Il Piccolo di venerdì 28 dicembre 2007

29 dicembre 2007

LUBIANA A CAPODANNO DOVE...

Per qualsiasi informazione sulla Slovenia, rivolgetevi al Centro di Informazione Turistica di Lubiana: Adamic-Lundrovo nabrezje 2; tel: 00386(0)13061215.
Fino al 31 dicembre, al Cankarjev dom, il Centro Culturale e Congressi di Lubiana, segnaliamo “Nebbia”, lo spettacolo performance di Cirque Éloize & Teatro Sunil.
Per una fine anno alternativa al Centro Metelkova, trovate il programma su www.metelkova.org.
Se vi affrettate, forse trovate ancora posto per il veglione alla fattoria agrituristica Pri Lazarju (Podgrajska cesta 9c, Tel: +386 (0)1 528 18 62, www.slovenia.info/prilazarju), che sorge su un colle con vista su Lubiana e sulla catena delle Alpi di Kamnik, della Savinja, delle Caravanche e delle Alpi Giulie e offre agli ospiti carne di bue, štruklji e una serie di pietanze adatte anche ai vegetariani. Alla fattoria potete acquistare distillati e liquori di loro produzione, succo di mele, latte e latticini. Da qui sono facilmente raggiungibili Kamnik, Grosuplje, i castelli di Ostrovrhar, la cava delle macine ed il punto di confluenza dei tre fiumi della zona.

28 dicembre 2007

PUPKIN KABARETT A CAPODANNO

Mentre i politici si dedicano a discorsi seri e altisonanti, a teatro, il Pupkin Kabarett, scanzonato specchio della nostra nuova triestinità centro-europea, si concentra sulla modesta quotidianità. Domenica scorsa al Teatro Miela, senza pretese e senza prendersi troppo sul serio, il clan di attori ha dato vita all’ennesimo happening in due tempi, scandito dagli energetici intermezzi musicali della Niente Band, composta da Riccardo Morpurgo al pianoforte, Piero Purini al sax, Luca Colussi alla batteria, Andrea Zulian al contrabbasso, Flavio Davanzo alla tromba e arricchita per la serata dal fisarmonicista Stefano Benni e dal violino di Toni Kozina.

Lo spettacolo, condotto dagli immancabili Stefano Dongetti e Alessandro Mizzi affiancati da Laura Bussani, ha visto naturalmente protagonisti il Natale e la caduta dei confini tra Italia e Slovenia. Tra un siparietto e l’altro, oltre alla comparsa di due alternative “nataline”, per onorare il periodo natalizio, è stato ripescato dagli archivi storici del Pupkin un esilarante video dell’opinionista opinabile che ha disquisito sul vizio e sull’emarginazione di cui sono vittima i non bevitori in territorio giuliano. Il profeta transfrontaliero Ma Sé, residente al monte Nanos ma impossibilitato a rientrare in Slovenia attraverso il confine di Fernetti ostruito da “un’inspiegabile calca di gente festante”, ha manifestato una struggente nostalgia per i bei tempi della “propusnica”.

Più frizzante e ritmato, il “secondo tempo” ci ha regalato una performance di Jack Calcagno e il consueto irresistibile “dramma radiofonico di coppia”, interpretato in dialetto triestino dalla Bussani e da Mizzi. Quest’ultimo ha chiuso la serata con il suo personale resoconto della “caduta”: visto che non siamo a Berlino, ha raccontato, il tutto si è ridotto a una banale ressa per “magnar e bever, come al solito… tanto no xè cambiado niente, almeno finché, oltre ai confini, no i se decidi a cavar sto maledeto semaforo de Aquilinia!”.
All’appuntamento si è presentato, come di consueto, un pubblico piuttosto numeroso che ha affollato la sala e ha dimostrato di apprezzare la comicità di Dongetti, Mizzi & company. Il prossimo appuntamento Pupkin sarà al Teatro Miela lunedì 14 gennaio.
Nel frattempo, però, i fan potranno seguire l’allegra brigata in onda su Telecapodistria alle 22.30 del 31 dicembre con la trasmissione “Fermi tutti… è Capodanno!”. In nome di un rinnovato sodalizio italo sloveno, i telespettatori trascorreranno l’ultima serata del 2007 a suon di sketch in compagnia dei cabarettisti triestini in trasferta a Portorose. Protagonista della trasmissione sarà soprattutto la musica: due cantanti, Leo Zannier e Raffaele Rampini, accompagnati da un’orchestra di otto elementi, composta dalla solita Niente Band allargata da violino, trombone e fisarmonica, ci intratterranno con una quindicina di brani musicali nel corso della serata. Non mancheranno momenti dedicati al consueto “umorismo popolare” e alle immancabili riflessioni sulla nostra perduta identità di frontiera. In programma anche alcuni collegamenti con gli inviati speciali da Mosca, Parigi e… Capodistria. Nel bilingue referente russo si potrebbero notare spiccate somiglianze con l’opinabile Rado Strukelj.

di Cristina Favento, pubblicato su Il Piccolo di giovedì 27 dicembre

24 dicembre 2007

IL TARLO DELLA SEMPLICITÀ, INTERVISTA AD ALESSANDRO ANGIOLINI

L’opera prima di Alessandro Angelini, vincitore della sezione Ippocampo al festival Maremetraggio, indaga in modo originale la scissione tra la vita dentro e fuori dal carcere attraverso il vissuto dei diversi personaggi. L’accento è posto sul fardello portato dalle famiglie dei detenuti, su chi, pur stando fuori, sconta una pena parallela fatta di assenza e privazioni, di rabbia, di vergogna e senso di colpa. "In carcere si dice aria l’ora di libertà" ci racconta il regista "nei luoghi vicino al mare, l’aria salata brucia i prati, arrugginisce e rende inservibili cancelli e lucchetti. Il titolo del film è stato scelto per dare l’idea di una libertà a termine, una libertà che va via via corrodendosi e che si arrugginisce come il rapporto che c’è tra Fabio e Sparti".

Fulcro del racconto è proprio un difficile e apparentemente irrecuperabile rapporto tra padre e figlio. Il confronto è duro, doloroso ma quanto mai necessario.


Non è un film di maniera, ma il racconto di un osservatore che, attraverso le immagini, mette in luce piccoli grandi dettagli, carpiti soprattutto dalla personale esperienza del regista. Dal punto di vista umano, Angelini ha vissuto la realtà del carcere facendo il volontario a Rebibbia mentre, dal punto di vista formale, ha alle spalle numerosi lavori documentari. Questo suo duplice bagaglio lo ha reso capace di tratteggiare l’atmosfera di fondo del film con precisa consapevolezza e partecipazione sentita. Prezioso è stato indubbiamente anche l’apporto del co-sceneggiatore, Angelo Carbone, e di attori come Pasotti, Colangeli e la Cescon.

di Cristina Favento

Leggi l'intervista completa su Fucine Mute

23 dicembre 2007

PUPKIN KABARETT PRENATALIZIO - INTERVISTA AD ALESSANDRO MIZZI


Reduci dal “Cantiere” muggesano diretto da Paolo Rossi, Stefano Dongetti e Alessandro Mizzi, accompagnati dal loro allegro entourage di attori e musicisti, tornano a intrattenerci stasera, alle 21.21 al Teatro Miela, con uno spassoso appuntamento Pupkin Kabarett.
“L’esperienza con Rossi, naturale proseguimento dei progetti iniziati assieme con lo spettacolo I Giocatori di Dostoevskij messo in scena quest’anno al Piccolo Teatro di Milano”, racconta Mizzi, “ci ha portato a un approccio al teatro ancora più artigianale, ci ha arricchiti nel mestiere. Mi raccomando però, Pupkin si pronuncia come si legge e non all’americana come fa Paolo! Ci siamo ispirati al personaggio interpretato da Robert De Niro nel film Re per una notte di Scorsese, Rupert Pupkin, un malriuscito comico di origine polacca che rappresenta l’icona del perdente".

Che cosa ci riserva lo spettacolo di stasera?
In genere non lavoriamo a tema, seguiamo piuttosto il percorso che si sviluppa nel corso della serata, ma il periodo c’indurrà a fare i nostri consueti commenti tra il serio e il faceto su alcuni argomenti quali il Natale, la caduta dei confini e la chiusura di questo 2007. Sarà insomma una sorta di antivigilia tragicomica. Faremo anche qualche previsione per il prossimo anno, a modo nostro naturalmente.

Chi ci sarà?
Ritroveremo personaggi vecchi e nuovi come Leo Zannier nella parte di Jack Calcagno, cantante italo americano impostoci dalla mafia (con una passione nascosta che non possiamo svelare), e Fulvio Falzarano nei panni del profeta transfrontaliero Ma Sè, il cui tempismo nelle previsioni lascia un po’ a desiderare… Naturalmente ci saremo Stefano Dongetti e io, la nostra “quota rosa” Laura Bussani, e la Niente Band con un organico maggiorato: da cinque elementi si passa a sette.

Con che cadenza riprenderanno l’anno prossimo i vostri happening al Teatro Miela?
Rispetto all’appuntamento settimanale delle scorse stagioni, ora ci esibiamo ogni due settimane e abbiamo trovato un bell'equilibrio. Riusciamo a prepararci meglio, a stressarci meno e c’è il tempo anche per curare progetti paralleli ed eventuali spettacoli itineranti. Al di là di questo appuntamento prenatalizio, il giorno dedicato al Pupkin resterà rigorosamente il lunedì. Innanzitutto perché è il giorno in cui tutti gli altri teatri non lavorano. Poi perché, nonostante qualsiasi deterrente, il nostro è uno spettacolo che ti fa iniziare bene la settimana.

Per il Pupkin prevedi un 2008 stabile o instabile?
La nostra forza è l’instabilità. Al di là del divertimento e dello spettacolo in sé, cresciuto di anno in anno sia nei contenuti, che nella forma artistica, siamo contenti di aver raggiunto un pubblico davvero trasversale ed eterogeneo, dal notaio all’operario, passando per gli studenti. Ci hanno detto addirittura che venire al Pupkin dà l’impressione che a Trieste succedano delle cose...
Nel 2008 prevediamo un ritorno a Zelig, dove già abbiam felicemente portato una piccola porzione della nostra cultura e del nostro dialetto, e la partecipazione in Croazia a un “Festival internazionale della risata” tra febbraio e marzo. Il 31 dicembre, inoltre, vi aspettiamo alle 22.30 su Telecapodistria con “Fermi tutti... è Capodanno!”.

di Cristina Favento,
pubblicato sul Piccolo di domenica 23 dicembre 2007

22 dicembre 2007

LA TRADIZIONE DEL PRESEPE IN ITALIA E IL GIRA PRESEPI IN FRIULI VENEZIA GIULIA

Come resistere all’incanto delle secolari tradizioni natalizie? Tra queste, tipicamente italiana, il presepe, o presepio, nelle sue varie forme e ispirazioni, è una delle più vive e popolari, in grado di affascinare sia credenti che laici, indipendentemente dall’età.
I primi a descrivere la Natività, fornendoci le basi di quella sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome di praesepium, furono gli evangelisti Luca e Matteo: "Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, l'avvolse in fasce e lo adagiò in una mangiatoia, perché in albergo per loro non c'era posto". Il termine presepe deriva appunto dal latino “praesaepe” (prae: "davanti"; saepire: "chiudere con una siepe”), ovvero recinto chiuso, mangiatoia, greppia.


Avvicinandosi ad un significato più comune, l'Enciclopedia dello Spettacolo definisce presepe “la rappresentazione tridimensionale della nascita di Cristo, realizzata con figure non fisse ma spostabili, secondo il senso artistico del costruttore, ed elementi veristici quali case, rocce, piante ecc., che, preparata per il Natale, viene tolta alla Purificazione”.
Il Friuli Venezia Giulia offre una gran varietà di presepi, con scenari e realizzazioni tutte da scoprire e, per guidarci alla scoperta di questi piccoli mondi, anche quest’anno l’Associazione regionale delle Pro Loco organizza il “Gira Presepi”. L’iniziativa propone una serie di itinerari, da percorrere in pullman, che coprono l’intero territorio regionale con circa 180 tappe e oltre quattromila opere esposte. Diverse le tipologie: mostra di presepi, presepi monumentali, esposizioni artigianali, presepi viventi, tutti illustrati in un’utile cartina, reperibili lungo le varie tappe e negli uffici turistici regionali.
Rispetto allo scorso anno, le sedi della quarta edizione del “Gira Presepi” sono quasi raddoppiate. In provincia di Udine si sono aggiunte le sedi di Chiusaforte, Porzùs (Attimis), Camporosso, Moimacco, Salino di Paularo, Precenicco e Brazzacco. Nel Friuli Occidentale debuttano Cordovado, Claut, Santa Lucia di Prata, Casarsa della Delizia, Tramonti di Sotto e Roveredo in Piano. La città di Gorizia è presente con tre siti mentre a Trieste sono confermate tutte le tappe, incluso il curioso Museo del Presepio, gestito dall’Associazione Italiana Amici del Presepio. Restano confermate le mete classiche: dalla tradizione di Perteole al grande presepe all’aperto di Ara di Tricesimo, tra i più conosciuti d’Europa, che occupa un’area di 2.500 m²; dai presepi di Castelmonte e di Moggio Udinese, che quest’anno festeggia la sua decima edizione, all’originale esposizione della Scuola “S. Maria degli Angeli” a Gemona del Friuli. (Info: Pro Loco FVG Villa Manin, tel. 0432 900908, http://www.prolocoregionefvg.it/).
Nel corso dei secoli il presepe ha seguito varie evoluzioni. Dopo una prima fase di semplici raffigurazioni, dapprima dipinte e poi scolpite in altari e cappelle appositamente dedicate e addobbate durante il periodo natalizio, dal 1300 in poi, la Natività è affidata all'estro figurativo degli artisti più famosi. Tra i tanti, Piero della Francesca, il Perugino, Dürer, Rembrandt, Poussin, Ghirlandaio, Murillo, Correggio e Rubens impreziosirono le chiese e le dimore dei più facoltosi committenti europei. Dalla fase cosiddetta aristocratica, nella quale il presepe, sontuoso e artisticamente raffinato, si diffonde presso le famiglie nobiliari, si passa infine all’evoluzione successiva, quando, estendendosi a tutti i ceti sociali, il presepe acquisterà un carattere più squisitamente popolare, così come lo conosciamo oggi.
Il primo presepe vivente, magistralmente dipinto da Giotto nell'affresco della Basilica Superiore di Assisi, fu realizzato da San Francesco che, nel 1223 in provincia di Rieti, a Greccio, organizzo una sacra rappresentazione della nascita di Gesù. Il più antico presepe inanimato del quale si ha notizia è, invece, quello che Arnolfo di Cambio scolpì interamente nel legno nel 1290 per Papa Onofrio IV. Alcune delle statue, realizzate ad altezza naturale, si conservano oggi nella basilica di S.Maria Maggiore a Roma.

di Cristina Favento,

articolo pubblicato sul Piccolo di venerdì 14 dicembre 2007

I PRESEPI PIÙ BELLI DEL FRIULI VENEZIA GIULIA

DOVE: I presepi più belli del Friuli Venezia Giulia Suggestivi sono il presepe vivente di Brazzacco (Moruzzo), che si tiene il 24 e 26 dicembre con 120 comparse e oltre 300 costumi indossati in scena e la rassegna “Borghi e presepi” di Sutrio con decine di presepi di provenienza italiana, austriaca, tedesca e slovena ospitati nei cortili e sotto i loggiati delle antiche case in pietra. Presepi di ogni forma e dimensione appaiono tra dicembre e gennaio anche sui davanzali delle case di Poffabro, che si trasforma in un incantevole presepe nel presepe. Particolarissimo quello che, invece, la notte del 24 dicembre viene fatto emergere dal lago di Cornino (Forgaria) per poi galleggiare sulla superficie fino al 6 gennaio. Da non perdere anche il presepe nella cripta del Santuario di Castelmonte, vicino a Cividale, visitabile sino al 2 febbraio, il Presepe dei Cramârs (i venditori ambulanti carnici di spezie) in vetro di Murano a Ravascletto, aperto al pubblico fino al 6 gennaio, e naturalmente il presepe da record di Ara Tricesimo.

I PAESAGGI DELLA MUSICA AL CADORE DOC FILM FESTIVAL

BELLUNO. Lo splendido scenario invernale del Cadore farà da sfondo alla terza edizione del Doc Film Festival, dedicato quest’anno ai “paesaggi della musica”. In programma a Pieve dal 27 al 30 dicembre all’Auditorium Cos.mo, per la direzione artistica di Marco Rossitti e con diversi ospiti d’eccezione, la manifestazione cinematografica prevede tre giornate di proiezioni, eventi e concerti all’insegna dell’arte del suono.
Si inizia giovedì 27, alle ore 16, con la proiezione di ‘Cannabis Rock’, di Franco Fornaris, breve e intensa epopea beat di un gruppo di alpinisti arrampicatori che, dal 1973 al 1975, vissero l’entusiasmante stagione musicale di Bob Dylan e dei Popol Vuh. Seguiranno l’anteprima nazionale del documentario “Jazz Istruzioni per l’uso”, di Elena Somarè, e “Brasileirinho”, di Mika Kaurismaki, che racconta le radici della musica carioca grazie al sound del Trio Madera Brasil. Il lavoro della Somarè, ospite alle proiezioni, nasce da un’idea di Massimo Nunzi che, come una sorta di Virgilio, accompagna lo spettatore in un viaggio accessibile anche ai non addetti ai lavori. Assieme alla sua orchestra di 18 elementi, il musicista ha illustrato la storia del Jazz in puntate, con interviste al ‘Gotha’ del jazz italiano, da Enrico Pierannunzi a Paolo Fresu, Rita Marcotulli, Danilo Rea, Rosario Giuliani, Maria Pia De Vito, Enrico Rava, Paolo Damiani, Ada Montellanico, Fabrizio Sferra, Roberto Gatto e molti altri. Chiuderà la prima serata la vivace performance live di “Orient Balkan”, ensemble proveniente dalla Bulgaria che propone un particolare repertorio di musica popolare e tradizionale balcanico zigana.
Venerdì pomeriggio le musiche dei CSI nel lavoro di Davide Ferrario, “Sul 45° parallelo”, porteranno lo spettatore “sulla pianura padana con l’occhio del mongolo” prima di lasciarlo, alle ore 18.00, con Claudio Ambrosini, ospite del festival per discutere Il colore dei suoni fra Tiziano e Vedova, che ha recentemente ricevuto Leone d’oro alla Biennale Musica 2007 grazie al suo ultimo lavoro intitolato Plurimo (per Emilio Vedova).
L’appuntamento è il primo di una serie di omaggi al più illustre cittadino di Pieve, dove è anche visitabile la sua casa natale, in corrispondenza della grande mostra “Tiziano, l’ultimo atto”, allestita fino al 6 gennaio presso Palazzo Crepadona a Belluno e nella sede della Magnifica Comunità di Cadore a Pieve. A firma del documentarista Didier Baussy-Oulianoff verranno proiettati, sabato 29 dicembre, sia “Tiziano”, che “Le Tintoret d’après Jean-Paul Sartre. La dechirure jaune”. Nella stessa giornata, saranno proposti l’incontro con Antonio Costa, storico del cinema, e con Bernard Aikema, storico d’arte, entrambi docenti universitari.
Alle 21 di venerdì, al Doc Festival sarà la volta del noto pianista Marco Scolastra, musicista elegante e di particolare talento, che si esibirà nel concerto “Il pianoforte italiano”. Sabato si riprende alle ore 15 con “L’orchestra di Piazza Vittorio” di Agostino Ferrente, cui seguiranno domenica il recentissimo “I diari del ritorno”, “Raul” (Italia 2007, 60’), di Alessandro Rossetto, “Houcine” (Italia 2007, 50’) di Leonardo Di Costanzo, presente al festival sabato 30 alle 16, e l’Istanbul sospesa dipinta dal regista Fatih Akin nel suo “Crossing the bridge”.
Sabato 29 è previsto un imperdibile viaggio nell’universo mozartiano attraverso un racconto-concerto intitolato “La notte delle dissonanze”. Sandro Cappelletto, storico della musica, dialogando con il Quartetto Savinio di Napoli che eseguirà naturalmente temi mozartiani, rievocherà la notte viennese in cui il compositore terminò i Sei Quartetti dedicati a Haydn.
Evento speciale, nella serata conclusiva di domenica 30, sarà la proiezione de “Il vento fa il suo giro”, fortunato film di Giorgio Diritti, premiato in questi giorni al festival Cinemaitaliano di Roma. Ambientato nelle valli occitane del Piemonte, il film è dedicato al rapporto fra uomo e ambiente naturale.
E una volta conclusa la piacevole parentesi musical cinematografica, a essere protagonisti torneranno i magici paesaggi innevati del Cadore.
di Cristina Favento,
pubblicato su Il Piccolo di venerdì 21 dicembre 2007

PIEVE DI CADORE, CONSIGLI IN PILLOLE

Per testare la cucina semplice ma affatto povera del Cadore, potete provare allo “Sky Bar” (via Cortina, 11), nel centro di Pieve, adatto a tutte le esigenze. Più impegnativi, non vi deluderanno “Al Sole” (pza Municipio 30); “Al Pelmo” (via Nazionale, 60) e “Giardino” (via Carducci, 20). Nel periodo natalizio è aperto anche il rifugio ANTELAO, mt. 1796, alle pendici dell’omonimo monte (tel. 0435/75333).
I tipici prodotti della zona, come formaggi, salumi, funghi o miele, li trovate al Bar Bianco (via Belluno 10) o alla Caneva (via della Chiesa 2/bis)Sino al 6 gennaio, i più piccoli possono visitare la “Casa di Babbo Natale” al Parco Roccolo (ore 10.00-12.00 e 14.00-16.00, tel. 0435/500372).
A Palazzo Cos.mo, sede del Doc Festival, c’è anche il museo dell’occhiale di Pieve, dove sono raccolti oltre duemila fantasiosi manufatti, dal Medioevo fino giorni nostri, che, in molti casi, non hanno nulla da invidiare ai capolavori della gioielleria o al migliore artigianato artistico.

18 dicembre 2007

QUALE DROGA FA PER TE? UN PERSONAGGIO BRECHTIANO PER ANNA GALIENA

Anna Galiena, lontana dall’immagine che di lei il cinema ci aveva dato, si mette in gioco con coraggio a teatro in “Quale droga fa per me?” di Kai Hensel, in scena alla Sala Bartoli fino al 23 dicembre per la regia di Andrée Ruth Shammah. Lo spettacolo fa parte di un più ampio progetto, prodotto dal Teatro Franco Parenti, che riunisce i testi di tre giovani autori europei contemporanei, accomunati dalla volontà di raccontarci il presente senza rifugiarsi in facili semplificazioni emotive.

Il teatro di Hensel, autore pluripremiato e tra i contemporanei più rappresentati in Europa, è un teatro di intelligenti ribaltamenti che rovescia abilmente le sue premesse iniziali. L’autore ci offre la storia problematica e sincera di Hanna, una donna con un marito, un figlio e una bella casa liberty, apparentemente felice, che, da un giorno all’altro, si ritrova a dipendere da qualsiasi tipo di droga.

Il racconto al femminile inizia al punto di svolta, nel momento in cui le cose s’incrinano. La rappresentazione affronta una spinosa scelta esistenziale trasformandola in una sorta di conferenza, in un introspettivo viaggio conoscitivo nel quale trascina lo spettatore, coinvolgendolo anche fisicamente. Alcuni vengono fatti sedere su delle sedie allineate in fila sul palcoscenico e diventano una piccola platea nella platea, il pubblico della “conferenza”, parte integrante di uno spettacolo che volutamente indebolisce i confini tra finzione e realtà.
La scenografia ricorda quella di un’aula scolastica, grigia. Ci sono un tavolo, una sedia, una bottiglia d’acqua e un proiettore acceso. La protagonista entra in scena citando Seneca, ci mostra lucidi riassuntivi, ci illustra in maniera scientifica effetti chimici e psicologici delle varie droghe, come se davvero la sua fosse una lezione didattica. Ma ci parla anche del marito intento a far carriera, che beve e ha un’amante, del figlio di sette anni asociale e disturbato, dei loro problemi economici, dei suoi rimpianti.

In scena per un’ora e mezza c’è una Galiena che si muove nervosamente, che riesce a mantenere viva la nostra attenzione, che progressivamente si trasforma, anche nell’aspetto, sempre più scompigliato, quasi folle. Ci racconta ciò che le accade e ci spiega lucidamente le sue ragioni, ci fa capire che la vita è ben più complicata di ciò che sembra, che la realtà è molto più complessa, che per essere amati bisogna darsi e che “la menzogna è la nostra droga peggiore”, la droga di chi non sa osare e non riesce più ad essere tenero.
Costantemente in bilico tra emozione e considerazioni oggettive, Hanna ci coinvolge nelle sue vicende per poi straniarci d’improvviso e farci riflettere, impedendoci sia di immedesimarci, che di giudicare. Ci chiede addirittura di fare degli “esercizi”, di usare la suo storia per cercare di capire la nostra.

È un teatro epico insomma, nel quale i personaggi non parlano solo a se stessi ma dialogano direttamente con l’esterno, con la storia, con la società. Non sempre in questo tipo di operazione è facile riuscire. Il merito va ad un autore indubbiamente attuale e interessante, ad una regia sensibile e attenta e a un’attrice brava a rendere le sfumature intense e contrastanti del suo personaggio senza renderlo patetico.

di Cristina Favento,
pubblicato su Il Piccolo di lunedì 17 dicembre 2007

15 dicembre 2007

MILANO RICORDA BRUNO MUNARI E LE SUE "MACCHINE INUTILI" CON UNA MOSTRA ANTOLOGICA

MILANO. “Conservare l’infanzia dentro di sé per tutta la vita vuol dire conservare la curiosità di conoscere, il piacere di capire, la voglia di comunicare”. Così scriveva Bruno Munari, scomparso nel 1998, dando prova di quella geniale semplicità di pensiero che lo ha reso una delle personalità culturali più importanti del XX secolo.
A cent’anni dalla nascita, Milano, sua città natale, gli dedica una grande mostra antologica che ripercorre tutta la sua attività nel campo dell’arte e del design. In esposizione ci sono oggetti di design, opere d’arte, progetti di grafica e comunicazione, per un totale di 200 lavori, provenienti da importanti collezioni pubbliche e private.

Protagonista innovativo del pensiero europeo sin dagli anni Trenta, con la creazione delle “macchine inutili” e con i suoi sorprendenti lavori di grafica editoriale, Munari attraversa diverse stagioni artistiche che ne affinano via, via il metodo progettuale. Nel secondo dopoguerra entra definitivamente negli albi d’oro del design italiano grazie alle sue brillanti e prestigiose collaborazioni con le più significative realtà economiche dell’epoca quali Pirelli, Einaudi,La Rinascente, Olivetti e Campari, tanto per citarne alcune. Le sue invenzioni più felici restano, però, quelle realizzate per la Danese.
Negli anni Settanta il poliedrico artista si dedica al suo più ambizioso progetto, quei laboratori per stimolare lo sviluppo del pensiero progettuale creativo che, a tutt’oggi, sono considerati all’avanguardia nella didattica dell’età prescolare e della prima età scolare.

Proprio a questi, e al Metodo Bruno Munari ®, è dedicata un’importante sezione dell’esposizione milanese, inaugurata lo scorso 24 ottobre nella data dell’ipotetico centesimo compleanno di Munari, che proseguirà fino al 10 febbraio 2008 alla Rotonda di via Besana.
La mostra, curata da Beppe Finessi e Marco Meneguzzo con la collaborazione di un prestigioso comitato scientifico, nasce da un approfondito lavoro di ricerca e da un progetto affinato nel corso degli anni. Accompagna l’iniziativa il catalogo pubblicato da Silvana Editoriale, che intende costituire la nuova base storica e critica per lo studio della figura di Bruno Munari.
I visitatori possono apprezzare in esposizione i progetti di allestimenti degli anni Quaranta e Cinquanta, gli interventi artistici in opere di architettura tra i Cinquanta e Sessanta, i progetti di grafica e alcuni degli oggetti e delle riuscitissime ideazioni dell’autore.
Accanto alle opere più note, la mostra darà spazio anche ad alcuni aspetti meno indagati dell’opera del designer come il rapporto con il mondo dell’architettura e la sua collaborazione praticamente ininterrotta con molte delle riviste italiane dedicate al progetto, alla comunicazione e all’arte.
Il percorso espositivo, allestito dall’architetto Marco Ferreri con grafica di Italo Lupi, non segue un ordine cronologico o tipologico ma è organizzato per aree tematiche, a rappresentare i diversi momenti di un’unica attività creativa. Una scelta intelligente che mette in evidenza il particolarissimo metodo progettuale di Munari, vero denominatore comune della sua multiforme attività.
di Cristina Favento,
pubblicato su Il Piccolo di venerdì 14 dicembre 2007

13 dicembre 2007

SI CHIUDE IL CANTIERE DI PAOLO ROSSI PER UN NUOVO TEATRO POPOLARE

E il teatro ridiventa luogo d’incontro, di confronto, di condivisione. La serata di lunedì, trascorsa al “Convegno/Spettacolo, per una nuova forma di teatro popolare” assieme a Paolo Rossi e ai suoi “allievi” al Teatro Verdi di Muggia, ha dato davvero l’impressione di prender parte ad un progetto in fieri, vivo, bello anche e proprio perché imperfetto.

L’evento, conferma visibile di tutto il lavoro svolto, ha concluso la terza fase di un “Cantiere”, iniziato lo scorso settembre sotto la guida dell’illustre capocomico e organizzato da Bonawentura/Teatro Miela in collaborazione con il Comune di Muggia e con il sostegno della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia.L’idea del progetto è nata in seguito all’esperienza positiva della Confraternita dei Precari, che ha visto la fusione di due compagnie teatrali: quella della triestina Pupkin Kabarett e la milanese Baby Gang, dirette da Rossi, desideroso di allargare e condividere l’esperienza anche con altri attori che operano sul territorio regionale e nella vicina Slovenia.

“Insegnare e tramandare il metodo e i trucchi del mestiere favorisce il ricambio generazionale, crea dei figli”, dichiara Rossi con vivacità, “se ciò non accade, tra dieci anni negli stabili ci ritroviamo con qualche attore anziano e poi il vuoto. Le ultime generazioni troppo spesso hanno pensato solo a se stesse”.

Sembrano aver imparato bene gli allievi in scena, che riescono nell'intento di comunicare in modo diretto con il pubblico. Si fanno notare soprattutto un’irresistibile Valentina Picello e il versatile Federico Bonaconza. Apprezzatissimo anche Alessandro Mizzi, del Pupkin Kabarett, in versione poeta dialettale di confine in procinto di perdere la sua identità.

Protagonista della serata conclusiva è stata naturalmente l’improvvisazione, pilastro del teatro popolare. Perché nel teatro di sussistenza, in scena, s’impara a stare con poco, quasi niente, e a lavorare con quello che c’è: qualche parola suggerita dal pubblico, il proprio corpo, un costante gioco di rimandi e la valorizzazione degli imprevisti, come uno starnuto o una porta che cigola.

Dopo un inizio impegnativo con gli interventi didattici di Giampaolo Spinato sul linguaggio, di Maria Consagra sul corpo dell’attore e di Renata Molinari, che ci ha regalato un delizioso contributo sugli almanacchi colorito da incantevoli “cartoline” e rimandi, si entra nel vivo dell’happening. Arrivano gli esercizi pratici, una strampalata favola di Paolo Rossi e i cosiddetti “trailers” teatrali di “Luci di Bohemia”, lo spettacolo della Baby Gang che ha vinto la prima edizione del concorso “Nuove sensibilità” organizzato a Napoli.

Un video ci svela anche il mistero delle numerose scritte che hanno tappezzato muri e pavimenti della città di Milano con un coro di “Perché stasera non vai a teatro?”. Tra una farsa e una scenetta, si arriva infine al vero cuore dell’incontro: la presentazione del Manifesto, ispirato, nella forma più che nei contenuti, a quello futurista di inizio Novecento, rievocato in sala dal Pupkin con traduzione “sloveno-futurista”.

“Il Manifesto è un elemento chiave”, sottolinea Rossi, “non tanto per definire stili o modi di fare teatro, quanto piuttosto per farci capire, per costruire un codice e magari poi infrangerlo, per poter fare teatro con passionalità”.

Il nuovo teatro popolare, dunque, incuriosisce, non predica; particolarizza, non semplifica; contamina generi diversi, mettendo stile e bellezza al servizio della storia; non sminuisce; è vivo, non autoreferenziale. Ha radici molto forti nella vita, non nel foyer. Si sottopone all’autorità degli scrittori e non del pubblico. Non spende i propri denari in scenografie faziose o inutili a coprire vuoti di scena. È pop: mischia le lingue, usa i dialetti, inventa un linguaggio nuovo e diretto. Si rivolge anche a chi a teatro non è abituato ad andare, perché tutti devono capire. Recita non al pubblico ma con il pubblico. Il teatro popolare deve dar da mangiare a chi lo fa, deve permettere di pagare l’affitto e magari, perché no, di andare in vacanza.


di Cristina Favento,
pubblicato su Il Piccolo di mercoledì 12 dicembre 2007

09 dicembre 2007

IL CANTIERE DI PAOLO ROSSI

Dopo quattro intense settimane trascorse assieme ad attori, addetti ai lavori e ad un pubblico curioso e partecipe, si conclude oggi la terza e ultima fase del “Cantiere” sul teatro popolare diretto da Paolo Rossi presso il teatro Verdi di Muggia. Per “toccare” con occhi e orecchie ciò che è stato fatto nel corso dell’avventura, bisognerà però aspettare domani, quando, alle ore 20 nello stesso teatro Verdi, l’improvvisata compagnia si offrirà al pubblico in un’originale “Convegno/Spettacolo” intitolato “Per una nuova forma di teatro popolare”.

L’appuntamento sarà una sorta di vivace happening che, naturalmente sotto la guida di Paolo Rossi, mescolerà momenti dimostrativi, excursus didattici, intromissioni musical cabarettistiche e contributi teatrali “classici”. In scena, con sketch di repertorio, avremo la Compagnia BabyGang, la Compagnia del Pupkin Kabarett e gli altri attori che hanno partecipato al Cantiere. Interverranno, inoltre, gli insegnanti-artisti che hanno collaborato all'iniziativa: Renata Molinari e Giampaolo Spinato, Riccardo Piferi e Maria Consagra. Nel corso della serata, aperta a tutti, verrà enunciato il Manifesto del Teatro Popolare, nato strada facendo e in continua ridefinizione.

Il “Cantiere” è un progetto semplice e ambizioso assieme, che nasce da una domanda, “che cos’era e che cosa può essere il teatro popolare oggi?”, e si chiude auspicando un nuovo inizio, proponendone le basi. Non si è trattato né di un semplice laboratorio, né di un seminario, ma di un confronto, soprattutto con la gente. Fondamentale negli intenti è stato anche “il tentativo di recuperare quell’importante funzione formativa troppo spesso trascurata dai grandi teatri istituzionali che dovrebbero realmente occuparsene”, dichiara Dongetti del Pupkin.

Diverse sono state le fasi del percorso, reso possibile soprattutto grazie alla disponibilità del comune di Muggia e di Bonawentura/Teatro Miela, organizzatore dell’iniziativa. Da un’iniziale conoscenza stimolata dalla voglia di divertirsi e di giocare assieme, si è passati ad un training velocizzato sull’improvvisazione, fino a cimentarsi con un teatro di sussistenza, o di emergenza che dir si voglia. I volonterosi partecipanti si sono messi alla prova a 360 gradi, dal rapporto col proprio corpo alla creazione del testo e all’animazione in scena. “Perché in scena deve sempre succedere qualcosa”, ci racconta Rossi, “e un attore popolare non può mai essere depresso, altrimenti un operaio che viene a teatro potrebbe anche giustamente incazzarsi!”.
Nella terza e ultima fase, infine, si recita, giocando seriamente con cuore ed anima, altrimenti il riso ha un suono sgradevole, perché nel teatro popolare risata e pianto devono convivere, come c’insegnano i grandi da Eduardo in giù, come succede nella vita.

di Cristina Favento, pubblicato su Il Piccolo di domenica 9 dicembre 2007

06 dicembre 2007

SCEMO DI GUERRA, di ASCANIO CELESTINI


Vi ripropongo un vecchio post... perché Celestini me piace assai...

Proprio ora, mentre scrivo, su RAI3 stanno riproponendo lo spettacolo...
Celestini è ipnotico, se ci si ferma un momento ad ascoltare seriamente, senza farsi prendere dalle frenesie dello zapping, diventa poi impossibile cambiare canale. A teatro si poteva immaginare, ora i primi piani in tv lo confermano: mentre recita, i suoi occhi "brillano forte".

A proposito di "SCEMO DI GUERRA", vi propongo la recensione scritta dopo la rappresentazione qui a Trieste il 28 marzo al teatro Rossetti.

È storia vestita da fiaba il lungo inarrestabile flusso di parole sparpagliate sul palco del Teatro Rossetti con Scemo di guerra di Ascanio Celestini, autore, attore e regista. La sua voce giovane narra avvenimenti più vecchi di lui, sguscia tra i quartieri sventrati di una capitale neoliberata e ricorda quel 4 giugno 1944 in cui suo padre ragazzino rischiò la vita per una cipolla, si sofferma su un barbiere dalle mani belle, morto e risorto mendicante, ricrea nuove identità per uomini sfigurati in viso da macchie rosse, si intrufola sino ai covi di scarafaggi nei libri di Bruno Vespa e mescola mosche a Madonne.

Le parole sgorgano a fiumi, si accavallano, si rincorrono vestite di nuovi sensi e lo spettatore si aggrappa a quel veloce accento romano per non farsene scappare neppure una, resta appeso al filo chiedendosi da dove venga quest’urgenza di racconto.

Celestini è un cantastorie d’altri tempi, attinge a resoconti mille volte ascoltati, li reinterpreta arricchendoli d’innesti creativi e surreali in un racconto ciclico, quasi ipnotico. Testimonianze che diventano favole teatral-popolari della buonanotte, con luci che si abbassano e cicale che scandiscono il mattino di un nuovo racconto.

Il suo è un riportare semplice, senza eroismi, che confessa dei protagonisti disperati ma sorridenti, disposti a posticipare l’arrivo degli alleati pur di concludere l’acquisto in società di un maialino, confusi su ciò che avviene attorno a loro, ignari dei grandi disegni politici ed incapaci di riconoscere una divisa dall’altra.

Il talento drammaturgico dell’autore cattura il pubblico in un intreccio di personaggi, di Storia e storie ad incastro, racchiuse una dentro l’altra come le matrioske del russo seppellito vivo. La macchina narrativa è rodata, accumula coscienziosamente materiale, alterna, memoria collettiva e vissuti personali, riporta fatti reali quali il bombardamento del quartiere di san Lorenzo o il rastrellamento del Quadraro da parte dei tedeschi, gioca e sdrammatizza perdendosi in divagazioni magicamente visionarie.

Come un sopravvissuto che in tempo di guerra scopre di poter tirare avanti con poche cose, anche solo con le porzioni “scientifiche” alla trattoria della siora Irma, così Celestini se ne sta lì, in un piccolo quadrato di legno, seduto sulla sua sedia rossa, con il suo bicchier d’acqua, quasi a dimostrarci di non aver bisogno di nient’altro.
Come se avesse scoperto anche lui di potersela cavare con poco, di non aver bisogno di spazio, di grandi movimenti, di sofisticate scenografie perché il suo linguaggio prescinde dai mezzi.

È intenzionato a recuperare parti di noi che non abbiamo visto e vissuto in prima persona, ricordi presenti nelle nostre orecchie, predilette in questo particolare itinerario della memoria. Sfruttando solo se stesso, questo originale interprete riesce a scatenare sul palco una forza evocativa ed immaginifica, a riempirlo di personaggi così concreti da sembrare quasi materialmente presenti.

Solo alla fine l’incalzante ritmo del monologo è interrotto dalla voce registrata del padre di Ascanio, recentemente scomparso, che riprende il prologo restituendogli un senso più profondo, un voce che incarna l’autenticità della testimonianza storica ed umana.


di Cristina Favento

03 dicembre 2007

AFFITTASI di Özen Yula

In un quartiere povero le persone si possono affittare come fossero cose. Il sesso è merce di scambio e l'amore fa male. Il sogno è un altrove che non si raggiunge mai, se non con la morte, un altrove amaro.

La piece scritta da Özen Yula, scrittore e giornalista turco, Premio Afife come miglior drammaturgo dell’anno premio per due volte, non lascia sperare, non offre comodi appigli per conclusioni a lieto fine. Del resto la storia è troppo cruda per aspettarsi un epilogo che pacifichi le coscienze, non è certo negli intenti dell'autore, che coraggiosamente si addentra in zone d'ombra che tutti conoscono ma di cui pochi parlano.
di Cristina Favento